Nel trabocchetto estivo possono cadere anche persone smaliziate come gli esperti di mass media. Ci è caduto ad esempio Peppino Ortoleva, storico della comunicazione, che segnala la sua disavventura al Corriere della Sera: «Sono stato vittima di una tipica truffa da telefonia cellulare — scrive in una mail —. È un abbonamento da 5 euro settimanali che non ho mai sottoscritto ma che in qualche modo mi è stato inoculato nella sim come un virus, credo attraverso un sms che mi prometteva l’invio di un altro sms, per ricevere il quale dovevo dare l’okay».
Prosegue la lettera: «Avendo un figlio minorenne in giro per il mondo, e immaginando che potesse essere un suo messaggio, ho accettato. Poi però mi sono accorto che in realtà era un servizio di suonerie a pagamento e mi sono rivolto alla Tim chiedendo che venisse disattivato. Cosa che è avvenuta. Tuttavia, quando ho fatto notare che la società di servizi mi aveva acceso un abbonamento senza che ne fossi praticamente consapevole, al call center di Tim hanno tagliato corto dicendo che quell’abbonamento, consapevole o no, l’avevo attivato io».
«Gli sms di questo tipo—rispondono a Telecom Italia — vengono inviati da Tim solo a clienti che hanno dato consenso al trattamento dei dati personali esprimendo la volontà di ricevere informazioni pubblicitarie legate ai servizi. In alternativa, i messaggi possono essere mandati autonomamente dal content provider a cui il cliente ha rilasciato il consenso in altri ambiti (per esempio con la navigazione wap e web)».
Ma il punto è che troppo spesso, checché ne dica Telecom, il consenso viene ottenuto in modo subdolo. La segnalazione di Peppino Ortoleva è una delle migliaia che arrivano sui tavoli dell’Authority per le Comunicazioni, l’Agcom, o vengono inviate alle organizzazioni dei consumatori. La sola Autorità presieduta da Corrado Calabrò ogni anno ne riceve 40mila e di queste una su cinque riguarda l’attivazione di servizi non richiesti, tra i quali abbonamenti a loghi e suonerie da parte di cosiddetti content provider.
Malgrado la multa di un milione di euro data ai quattro operatori mobili (Tim, Vodafone, Wind e 3) dieci mesi fa dall’Antitrust, l’affare dei «servizi a sovrapprezzo» prospera più che mai, favorito dal relax agostano. Anche perché molti non sanno che per disattivare il servizio basta una telefonata al proprio operatore. «Se il content provider non dà seguito alla richiesta di disattivazione—dice Telecom Italia — abbiamo introdotto una procedura di controllo che gli assegna un codice autorizzativo per ogni cliente e per ciascun servizio richiesto. In questo modo, su richiesta, il 119 di Telecom Italia può intervenire direttamente, bloccando il codice autorizzativo e stoppando definitivamente l’invio di messaggi da parte del content provider».
Ma come scatta la trappola dell’abbonamento- virus? Il meccanismo è diabolicamente banale. Il più delle volte bastano una visita a un sito di musica, un clic distratto per ascoltare un brano, la non lettura di una clausola microscopica, l’invio del proprio numero di cellulare o di un sms con un certo testo a un certo numero e ci si ritrova — senza saperlo — a pagare fino a 20 euro al mese per ricevere settimanalmente una suoneria, com’è capitato a un altro lettore finito per caso nel sito di Flycell.
Ai danni dell’utente congiurano gli spot televisivi quando promettono loghi e suonerie in regalo, inducendo lo spettatore disattento a pensare che si tratti di servizi gratuiti. «Spesso—dicono all’Agcom — ci imbattiamo in autentici esempi di pubblicità ingannevole». Se le cose stanno così è anche perché il quadro delle responsabilità di controllo non è chiaro.
Con il decreto Landolfi del 2006, i servizi a sovrapprezzo sono regolati dal sottosegretariato alle Comunicazioni, che oggi fa parte del ministero dello Sviluppo economico. Mentre numerazione e normativa «a tutela dell’utenza » competono all’Agcom.
Il che crea non poca confusione. Il risultato di questo garbuglio di poteri è che non si riescono a definire—almeno per la vendita in abbonamento di news, loghi e suonerie — regole più stringenti sull’attivazione dei servizi. Le misure più efficaci — imposte dall’Agcom o adottate in autodisciplina — riguardano infatti il momento successivo, quello in cui il servizio è già stato attivato.
Si tratta di misure quali appunto la disattivazione del servizio a richiesta oppure l’invio periodico di messaggi che ricordano all’utente i costi dell’abbonamento in corso e le modalità di recesso. Tra i content provider c’è chi ha scelto di «autodisciplinarsi»: Buongiorno, Dada, David 2, Neomobile e M-Platform si sono date un codice di comportamento che riguarda la trasparenza commerciale. Alcune ad esempio mandano al cliente un messaggino di benvenuto nel quale gli ricordano che «sta pagando» un certo servizio.
Altre gli inviano un estratto conto a fine mese. Più che da spinta etica assoluta, sono mosse dal desiderio di migliorare la propria reputazione relativa, distinguendosi dai marchi più opachi, con vantaggi in termini di credibilità e di quote dimercato. Ma, quale che sia la spinta, l’utente ne riceve comunque un beneficio. Legittimo dunque chiedersi perché l’Agcom non abbia ancora reso obbligatorio per tutti questo codice di comportamento oggi adottato solo da pochi.
Tra queste aziende un caso a parte è Dada, controllata da Rcs, che da due anni non vende più le suonerie ed è invece attiva soprattutto nel campo della musica via Internet, in particolare con il download di canzoni a prezzi convenienti. Un altro non chiarissimo confine di responsabilità è quello che separa l’operatore mobile e l’azienda che fornisce il contenuto del servizio. Una cosa è sicura: entrambi ci guadagnano.
Fino ad oggi e per molto tempo gli operatori hanno cercato di prendersi i vantaggi rifiutando le responsabilità. Ma Agcom e Antitrust non hanno mai accettato questa logica, come dimostra il fatto che le multe le hanno date a loro, non a chi offre i contenuti; e gli operatori, a loro volta, si sono rifatti sui content provider. Anzi, oggi chi vuol offrire servizi attraverso gli operatori mobili deve sottoscrivere un codice in cui si impegna a rispettare certe regole.
Manca però — lo ripetiamo — la regola più importante, quella che dovrebbe imporre procedure chiare nell’attivazione degli abbonamenti. Come spiega il caso citato all’inizio, le modalità di «acquisizione del cliente» sono ancora piuttosto furbastre, per non dire di peggio.
Fonte: Corriere.it